Acque minerali pubbliche... incassi privati
- iveta-semetkova
- 9 ago 2018
- Tempo di lettura: 6 min

Vi piacerebbe pagare un euro per la materia prima e ricavarci anche fino a 312 euro? Funziona così con le acque minerali italiane. Una risorsa pubblica che genera un business enorme, ma solo per pochi privati che pagano canoni di concessione risibili: meno di 18,4 milioni di euro su un fatturato annuo di 2 miliardi e 750 milioni di euro, cioè lo 0,68%. In altri termini, 1,16 millesimi di euro a litro per le casse pubbliche. Dopo oltre 90 anni dalla prima legge nazionale in materia, un organismo statale ha analizzato la situazione. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha divulgato il Rapporto tematico sulle concessioni delle acque minerali e termali, in base ai dati del 2015. “Un anno d'oro per il mercato delle acque minerali in Italia”, nel quale “è molto cresciuto il consumo pro-capite, che ha superato per la prima volta la soglia dei 200 litri/anno, con un incremento del 7,9% sul 2014”, spiega Mineracqua, l'associazione di categoria degli imbottigliatori nell'ultimo rapporto Bevitalia sul settore.
Le superfici demaniali concesse per lo sfruttamento delle acque minerali è di 28mila e 272 ettari, di cui quasi il 42% si trovano tra Piemonte, Lombardia e Lazio.
QUANTITÀ ENORMI, CANONI IRRISORI
Sono quasi 16 miliardi i litri d'acqua prelevata dai “produttori” in un anno. Produttori tra virgolette visto che la “merce” è un prodotto della natura già perfetto e pronto da confezionare, spesso con proprietà salutari certificate dallo Stato stesso. Alle Regioni lo Stato demanda la competenza in materia e ognuno fa un po' a modo suo. Le linee guida approvate dalla Conferenza Stato – Regioni nel 2006, invitavano ad applicare canoni minimi (non obbligatori) per ogni metro cubo (mille litri): da 50 centesimi a 2,5 euro. E poi 30 euro per ogni ettaro o frazione di superficie demaniale concessa. Ma gli importi sono talora persino più bassi di questi minimi e cambiano da regione a regione: 6 concessioni su 10 pagano solo l’elemosina sui terreni in concessione, quasi un forfait che al massimo è di 130 euro a ettaro in Puglia.
È il caso ad esempio, oltre che della regione pugliese, anche della Sardegna (unico canone di 39,97 euro a ettaro concesso) e della Provincia autonoma di Trento (38,2 euro a ettaro). In Abruzzo, invece, dove c'è una delle acque imbottigliate più vendute in tutta Italia dal secondo colosso del settore, si paga esclusivamente l'acqua confezionata: la bellezza di 30 centesimi a metro cubo, cioè zero virgola tre millesimi a litro. Diverse Regioni fanno sconti sui canoni a metro cubo – dimezzati in Calabria, Lazio e Campania - se le bottiglie sono in vetro, se si pratica il vuoto a rendere, se si aiuta l'occupazione e le zone svantaggiate, se si riduce l'inquinamento e così via.
Se tutte le regioni applicassero un canone calcolato secondo i parametri definiti dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2006 - spiega il report del MEF -, nel 2015 il patrimonio italiano di acque minerali avrebbe generato un incremento delle entrate pubbliche fino a oltre 28 milioni di euro. Cioè 46,8 milioni anziché 18,4 registrati. Legambiente propone di applicare un canone minimo di 20 euro a metro cubo (2 centesimi al litro), che produrrebbe oltre 225,6 milioni di euro l'anno per i bilanci degli Enti, ma sarebbe di più visto che la stima è fatta su 15 Regioni (5 non hanno fornito i dati a Legambiente).
ALLERGICI A CONTROLLI E GARE PUBBLICHE
Il dossier ministeriale rileva due gravi criticità. Una: le amministrazioni pubbliche non verificano che i volumi idrici e gli oboli di cui si accontentano siano correttamente misurati (vedi riquadro a pag. seguente).
Seconda assurdità: tutte le concessioni risultano assegnate con affidamento diretto, su istanza delle aziende private. A decidere chi può sedersi alla tavola di questo enorme business, in un mercato di sbandierata libera concorrenza, sono dunque burocrati e politici, presunti tutori del superiore interesse pubblico e dei beni comuni.
Su 295 concessioni, solo una è stata assegnata con gara pubblica in Liguria, nel 2015. Parliamo di autorizzazioni che durano 30 anni e in 7 casi sono addirittura perpetue.
Gioielli di famiglia del popolo italiano, attuale e futuro, praticamente regalati senza uno straccio di selezione che metta in competizione i vari contendenti, facendo leva ad esempio sul criterio del miglior offerente e quindi delle migliori entrate per lo Stato.
In realtà, le Regioni Abruzzo, Calabria, Liguria, Sicilia e Toscana – precisa il Tesoro - “hanno introdotto esplicitamente, nella propria normativa regionale, una procedura a evidenza pubblica come criterio di scelta del concessionario, prevedendo l'aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa”. Ma tutto ciò è rimasto inattuato.
Eppure, sottolinea il Rapporto del Ministero, alla luce dei princìpi comunitari sul mercato, giudici e studiosi del diritto concordano che l'obbligo della gara pubblica vada esteso anche alle concessioni per l’estrazione e lo sfruttamento delle acque minerali. È una regola, avverte il Ministero, alla quale “è decisamente improntato l’impianto normativo comunitario e, conseguentemente, quello nazionale”.
TUTTO IN POCHE MANI
Sono 170 le società imbottigliatrici private, ma il grosso si concentra in una manciata di gruppi. I primi due per volumi emunti e fatturato, la straniera Nestlé e la veneta San Benedetto, multinazionale della famiglia Zoppas, che emunge al nord, centro e sud Italia, prelevano più di un terzo dell'intero volume: oltre 2,7 miliardi di litri a testa in un anno. Gli altri maggiori gruppi sono, in ordine di quantità idriche sfruttate: Fonti di Vinadio (la piemontese acqua montana Sant'Anna che in pochissimi anni si è imposta come leader), Lete, Norda, Ferrarelle, Co.Ge.Di. (quelli dell'acqua che fa fare “plin plin”), Spumador, Società Italiana Acque Minerali, Gruppo Coca Cola Company. Questi 10 gruppi insieme si accaparrano oltre il 70% dell'acqua imbottigliata in tutta Italia. Si tratta di risorse demaniali, cioè gioielli di famiglia dell'intero popolo italiano, non solo quello attuale, ma pure quello che verrà dopo di noi. È naturale come l'acqua aspettarsi un ritorno per tutti, sotto forma di incassi per le istituzioni.
Un litro di acqua, in media, costa agli imbottigliatori 1,16 millesimi di canone. Quasi zero. Guardando i 10 colossi citati, in vari casi il costo dei canoni rapportato al fatturato è anche più esiguo dello 0,68% medio: 0,34% nel caso di Lete e Spumador, 0,37% per Ferrarelle, 0,42% per San Benedetto, 0,56% per Nestlé. Sempre per i primi 10 gruppi, la media del ricavo per ogni euro speso in canoni è di 191,35 euro: oltre il 19mila percento!
Ma il ricavo su ogni euro pagato agli Enti pubblici concedenti è ancora maggiore per alcuni: 312 euro per Lete (cioè il 31.200%); oltre 286 per Spumador; 280,5 per Ferrarelle, oltre 268 euro per Nestlé e più di 222 euro nel caso del gruppo San Benedetto.
IGNAVIA SULL’ACQUA BENE COMUNE
L'effervescenza statale e regionale nel tartassare i contribuenti svanisce in questo comparto. Senza dimenticare che lo Stato non è in grado di sapere quanta acqua davvero viene prelevata dagli imbottigliatori (vedi sotto).
Sempre più imbarazzante e indigeribile è dunque sentire che è tutta colpa del clima se i cittadini e le coltivazioni restano a secco e che non ci sono soldi per migliorare acquedotti e depuratori. Non sarebbe giusto che anche gli Enti, per conto dell'intera comunità nazionale, ci prendessero un congruo ritorno, magari per salvaguardare le risorse idriche? La domanda è ancora più frizzante considerando che l'acqua bene comune è sparita dall'agenda politica italiana: i referendum dell'11 giugno 2011 sono stati silenziati. A togliere il tappo all'omertà istituzionale è l'emblematico caso della Capitale, a secco nonostante il Lazio sia ricco di risorse idriche e terzo in classifica per numero di concessioni di sfruttamento di acque minerali... Qualche faccia da tubo ripeterà che mancano i soldi per ammodernare le reti, che le tariffe del servizio idrico in Italia “sono le più basse d'Europa” e occorre alzare ancora le bollette.
Appunto: perché non alzano la bolletta a chi preleva 16 miliardi di litri d'acqua pregiata ogni anno?
Lo Stato non sa quanta acqua prendono davvero
“Le Amministrazioni concedenti non conoscono il quantitativo effettivo di acqua emunta dai concessionari, in quanto la misurazione della portata effettiva non viene praticata per la mancata installazione degli strumenti idonei. […] Il quantitativo effettivo di acqua estratta può essere auto-dichiarato dai concessionari, senza che vi sia un’effettiva attività di controllo da parte dell’amministrazione concedente. In alcuni casi i concessionari, ancorché tenuti all’autodichiarazione, non comunicano periodicamente, come stabilito dai regolamenti regionali, il quantitativo di acqua emunta alle amministrazioni concedenti, le quali mancano di dare seguito agli strumenti di tutela dell’interesse pubblico di cui dispongono (come la revoca della concessione)”.
Lo scrive il Dipartimento del Tesoro nel suo 1° Rapporto sulle concessioni delle acque minerali.
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