Come ingannare il proprio cervello e trovare la felicità*
- iveta-semetkova
- 17 dic 2017
- Tempo di lettura: 7 min

Rick Hanson ci spiega come agire intenzionalmente sul nostro cervello per trovare una felicità e un benessere di lunga durata.
(…)
C’è una bellissima frase di Ani Tenzin Palmo, una signora inglese che ha trascorso 12 anni in una grotta in Tibet, che recita: “Non sappiamo cosa sia un pensiero, eppure ne facciamo esperienza in ogni istante”.

Ha ragione. La quantità di conoscenze riguardanti il cervello umano è raddoppiata negli ultimi 20 anni. Tuttavia sono ancora molte le cose che non sappiamo.
In ogni caso, di recente abbiamo iniziato a comprendere meglio le basi neurali di stati mentali quali felicità, gratitudine, resilienza, amore, compassione e via discorrendo. Queste acquisizioni ci hanno permesso di stimolare selettivamente i substrati che danno origine a questi stati. Ciò significa che possiamo anche rafforzarli. Perché, come recita la famosa citazione dello scienziato canadese Donald Hebb, “quando due neuroni scaricano simultaneamente, la connessione tra loro si rafforza”.
In definitiva tutto questo significa che, con la dovuta pratica, possiamo indurre sempre più la nostra complessa macchina neurale a coltivare stati mentali positivi.
Per capire in che modo farlo, dobbiamo prima comprendere tre dati importanti che riguardano il nostro cervello.
Primo dato: in meglio o in peggio, se il cervello cambia, la mente cambia
Ad esempio, una maggiore attivazione della corteccia prefrontale sinistra è associata a un incremento di emozioni positive. Quindi se si verifica una maggiore attivazione della porzione frontale sinistra del cervello, rispetto a quella destra, il benessere è maggiore. È probabile che questo si verifichi soprattutto perché la corteccia prefrontale sinistra ha un ruolo importante nel controllo delle emozioni negative. Se mettiamo dunque un freno alle emozioni negative, percepiremo più emozioni positive.
D’altra parte le persone che vivono quotidianamente in una situazione di stress cronico (particolarmente forte o addirittura traumatico) secernono un ormone chiamato cortisolo, che, proprio come un acido, corrode letteralmente l’ippocampo, una porzione del cervello fortemente coinvolta nella memoria visuo-spaziale e in quella contestuale.
Per esempio, adulti con una storia di stress alle spalle, che hanno perso fino al 25% del volume di questa parte del cervello, sono meno capaci di formare nuovi ricordi.
Possiamo dunque dire che se il cervello cambia, la mente cambia. Questo ci porta al secondo dato, ed è proprio qui che le cose iniziano a farsi interessanti.
Secondo dato: se la mente cambia, il cervello cambia
Questi cambiamenti si possono verificare in maniera transitoria o durevole. Per quanto riguarda i cambiamenti transitori, la concentrazione dei diversi neurotrasmettitori nel cervello cambia a seconda dei momenti. Ad esempio, quando le persone praticano consciamente la gratitudine, aumenta la circolazione dei neurotrasmettitori coinvolti nei processi legati al piacere, come la dopamina. Le ricerche riferiscono inoltre di una maggiore vivacità e lucidità mentale , in correlazione, molto probabilmente, con il neurotrasmettitore noradrenalina.
Ecco un altro esempio di come a un cambiamento dell’attività mentale faccia seguito una modificazione dell’attività neurale. Quando a degli universitari innamorati viene mostrata un’immagine della loro dolce metà, i loro cervelli diventano più attivi a livello del nucleo caudato, un’area cerebrale legata al piacere. Quando la mente cambia (quella scarica di amore puro, quel profondo senso di felicità e piacere) lo fa in correlazione con l’attivazione di una specifica parte del cervello. Quando smettono di osservare la foto dei loro partner, il centro del piacere si placa nuovamente.
Ma la mente può modificare il cervello anche in modo duraturo. In altre parole ciò che “scorre” attraverso la mente “scolpisce” il cervello. Definisco la mente come il flusso di informazioni immateriali che scorre attraverso il sistema nervoso; mi riferisco quindi a tutti i segnali inviati, la maggioranza dei quali rimane al di fuori della coscienza. Quando la mente scorre attraverso il cervello, quando i neuroni si attivano in contemporanea, con specifiche configurazioni a seconda delle informazioni che rappresentano, queste stesse configurazioni modificano la struttura neurale.
Le aree coinvolte iniziano a imbastire nuove connessioni tra loro. Le sinapsi esistenti – le connessioni tra i neuroni attivi – si rafforzano, diventano più sensibili, cominciano a sviluppare nuovi recettori. Si creano anche nuove sinapsi.
Una delle ricerche che preferisco ha coinvolto i tassisti di Londra. Per ottenere la licenza è necessario che i candidati memorizzino tutte le fittissime vie della città. Ebbene, alla fine della formazione, l’ippocampo (regione fortemente coinvolta nella memoria visuo-spaziale) degli aspiranti tassisti è risultato sensibilmente più spesso. In altri termini, quando due neuroni scaricano simultaneamente, la connessione tra loro si rafforza, fino al punto che è possibile osservare lo “spessore” di tale connessione.
Lo stesso risultato è stato riscontrato tra le persone che si dedicano alla meditazione. Infatti coloro che si dedicano regolarmente a una qualche pratica meditativa accrescono in termini misurabili alcune regioni chiave del cervello. Una di queste regioni si chiama insula, ed è chiamata in causa per ciò che chiamiamo “enterocezione”, ovvero la sintonizzazione sullo stato del nostro corpo e sulle sensazioni più profonde. Questa scoperta non dovrebbe sorprenderci. Buona parte di ciò che fanno queste persone è praticare la mindfulness del respiro, prestando attenzione nel momento presente a ciò che avviene internamente; non c’è alcun dubbio che stiano usando, e quindi rinforzando, l’insula.
Un’altra area coinvolta è la regione anteriore della corteccia prefrontale, coinvolta nei compiti di controllo attentivo. Nemmeno in questo caso dovremmo sorprenderci. Concentrare la propria attenzione sulla meditazione significa esercitare un maggiore controllo sull’attenzione stessa, rinforzandone quindi il substrato neurale.
La ricerca ha inoltre dimostrato che è possibile rallentare la perdita di cellule nervose. Normalmente perdiamo circa 10.000 neuroni al giorno Questo dato può sembrarci terribile, ma teniamo conto che quando siamo nati ne avevamo 1.1 trilioni. Inoltre, dobbiamo sapere che ne nascono varie migliaia ogni giorno, soprattutto nell’ippocampo, attraverso la cosiddetta neurogenesi. Quindi perderne 10.000 al giorno di per sé non è un grosso problema, ma, tirando le somme, una persona all’età di ottant’anni avrà perso in media il 4% della massa cerebrale. Chiamiamo questo processo“assottigliamento corticale legato all’età”. È un processo naturale.

In uno studio, tuttavia, i ricercatori hanno messo a confronto persone dedite alla meditazione a “non-meditatori”. Nel grafico i “meditatori” sono rappresentati dai pallini blu, i non-meditatori dai quadratini rossi e sono paragonati secondo le diverse età. Nei non-meditatori è stato riscontrato un fisiologico assottigliamento corticale nelle regioni descritte e in una terza area, la corteccia somatosensoriale.
Le persone che praticavano abitualmente la meditazione e “allenavano” il cervello non erano, invece, soggette a questo fenomeno.
Questa scoperta ha grandi implicazioni per una popolazione in costante invecchiamento. Per farla breve, ciò che non usiamo andrà perso, e questo vale per il cervello ma anche per molti altri aspetti della vita.
Questa scoperta mette in risalto uno degli insegnamenti che preferisco in questo ambito. L’esperienza conta davvero. Non conta solo nel nostro benessere momento-per-momento (come ci sentiamo nell’essere noi stessi) ma è importante per ciò che lascia in noi, entrando a fare parte del patrimonio del nostro essere più profondo.
Ed è proprio questa considerazione che ci conduce verso il terzo dato, quello con i maggiori risvolti pratici.
Terzo dato: è possibile usare la mente per modificare il cervello e, quindi, migliorare la mente
È ciò che chiamiamo “neuroplasticità autodiretta”. Il termine “neuroplasticità” si riferisce alla natura malleabile del cervello, in costante e continua evoluzione. L’aggettivo “autodiretta” fa invece riferimento alla possibilità di sfruttare la neuroplasticità in maniera consapevole, abile e intenzionale.
La chiave per attuarla è l’utilizzo controllato dell’attenzione. L’attenzione è, per intenderci, come un faro che illumina le cose rendendoci consapevoli della loro esistenza. Ma funziona anche come un aspirapolvere che risucchia nel cervello tutto ciò su cui si posa, che sia positivo o negativo.
Ad esempio, se la nostra attenzione si orienta continuamente sui nostri crucci o rimpianti – le nostre scocciature, il nostro coinquilino rumoroso, gli altri, ovvero l’“inferno” secondo Jean-Paul Sartre – allora creeremo i substrati neurali di tali pensieri e sentimenti.
Al contrario, se direzioniamo la nostra attenzione su quelle cose per cui siamo grati, i doni della nostra vita – le qualità benefiche dentro di noi e nel mondo che ci circonda; le cose in cui riusciamo, la maggior parte delle quali possono sembrare di poco conto ma in ogni caso ci riescono bene – allora costruiremo substrati neurali decisamente differenti.
Credo che questo sia il motivo per cui, più di cent’anni or sono, prima che venissero inventati strumenti come la risonanza magnetica funzionale, William James, il padre della psicologia americana, disse: “L’educazione dell’attenzione dovrebbe essere considerata l’educazione per eccellenza”.
Il problema, ovviamente, è che la maggior parte delle persone non possiede un buon controllo della propria attenzione. In parte ciò è dovuto alla natura umana, modellata dall’evoluzione. I nostri antenati che si sono concentrati semplicemente sul riflesso dei raggi solari su di uno specchio d’acqua sono stati divorati dai predatori. Quelli che, invece, si trovavano in uno stato di costante vigilanza sono sopravvissuti.
Oggigiorno, tuttavia, siamo costantemente bombardati da stimoli per la cui gestione il nostro cervello non si è evoluto. Perciò acquisire un maggiore controllo sulla nostra attenzione, in un modo o nell’altro, è realmente fondamentale. Poco importa se questo avviene attraverso la pratica della mindfulness, per esempio, o attraverso la pratica della gratitudine, che ci porta a riconoscere ciò che di buono ci è stato donato.
Sono ottimi modi per acquisire il controllo della nostra attenzione, perché ci ritroviamo lì, che si tratti di 30 secondi o di 30 minuti, a riportare la nostra concentrazione su un oggetto di cui scegliamo di divenire consapevoli.
Assorbire il buono
Quanto detto ci porta a quello che è il mio metodo preferito per usare volontariamente la propria mente per migliorare nel tempo il cervello: assorbire il buono.
Vivere semplicemente delle esperienze positive non è sufficiente per promuovere un benessere che duri nel tempo. Se una persona prova gratitudine per qualche secondo è una bella cosa, sempre meglio che covare rancore o provare amarezza per qualche secondo. Ma per “risucchiare” quell’esperienza fin dentro al cervello, abbiamo bisogno di immergerci in essa per più di qualche secondo. Ci sono dei passi che dobbiamo seguire se vogliamo, consapevolmente, mantenere il faro dell’attenzione sul positivo.
Detto questo, come lo facciamo? Suggerisco tre modi possibili .
Credo sia importante esplicitare che non ho inventato nulla di nuovo. Si tratta di tecniche utilizzate in molte buone terapie e in altre pratiche. Ho solo provato a separarle e inscriverle all’interno di una comprensione evoluzionistica del funzionamento del cervello.
1. Lasciamo che un buon fatto diventi una buona esperienza. Spesso mentre viviamo le nostre vite, le cose positive semplicemente accadono: una piccola cosa, come una crocetta sulla nostra lista delle cose da fare, un altro giorno di lavoro a cui siamo sopravvissuti, lo sbocciare dei nostri fiori, e via discorrendo. Sono tutte occasioni per sentirci bene. Non lasciamocele sfuggire per niente al mondo: riconosciamole come opportunità per sentirci realmente bene.
2. Assaporiamo le esperienze positive. Mettiamo in pratica ciò che ogni buon insegnante sa: se vuoi che le persone imparino qualcosa, rendi l’esperienza il più possibile intensa (in questo caso sentendola nel corpo) e cerca di mantenere questa intensità il più a lungo possibile.
3. Infine, quando ci immergiamo nell’esperienza, percepiamo nel profondo che l’esperienza entra a far parte di noi. Possiamo farlo attraverso le visualizzazioni, ad esempio percependo una luce dorata che penetra dentro di noi oppure un balsamo che lenisce il corpo dal profondo. Possiamo anche immaginare un gioiello che va a depositarsi nello scrigno del nostro cuore, o ancora possiamo semplicemente constatare che l’esperienza diventa parte di noi e si trasforma in una risorsa che possiamo portare con noi per sempre.
Комментарии